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Per Capire come dare del Tu al Tuo Mondo Interno

Violenza

Il dolore e la violenza

Introduzione e breve excursus storico-psicologico del concetto di aggressività e violenza.
L’idea di fondo che mira a fare da filo rosso alla seguente relazione è quella di dare una lettura interpretativa, senza troppe irraggiungibili pretese, che sia un po’ il percorso del sentiero tortuoso (meglio, dei sentieri) che collegano psicologia (principalmente la psicologia dinamica, ma non solo e necessariamente questo ramo) e la scienza criminologia. Cercherò di dare una lettura di alcuni casi di reati violenti e cercherò di comprendere se, per i dati in mio possesso e quelli a mia volta indagati, la teoria della Violentizzazione di Lonnie Athens possa essere un’utile chiave di lettura. L’altro autore di riferimento principale nella riflessione sarà Felicity De Zulueta, che come vedremo poi, dà una sua interpretazione dell’evoluzione della personalità violenta che si distacca dalla tradizione psicoanalitica classica, cui lei appartiene. Nel suo Dal dolore alla violenza. Le origini traumatiche dell’aggressività 1999, Felicity de Zulueta propone una tesi interessante su questo tema; la violenza come prodotto di un trauma psicologico e dei suoi effetti sui bambini di ogni età e sugli adulti. Da sempre la violenza costituisce una delle più potenti spinte alla disgregazione nella vita degli individui e nelle collettività. Le sue origini biologiche, psicologiche e sociali sono in parte note, ma non si era teorizzata un’ indicazione di una gerarchia o di una particolare organizzazione di queste concause. Una rassegna dell’evoluzione dell’ interpretazione psicoanalitica dell’aggressività farà un po’ da cappello e si incastrerà, spero, con la presentazione dei casi e la riflessione sugli stessi. Aggressività deriva dal termine latino “ad gradior” che ha il significato di “dirigersi verso”, “andare contro”, ma anche “andare incontro” cioè verso attribuendogli così un significato positivo, diventando la condizione che consente di allacciare rapporti sociali affettivi e di amicizia.

I primi studi sull’aggressività hanno inizio negli anni trenta e si sviluppano nel corso di tutto il ventesimo secolo con diverse teorie che portano ad un concetto interpretativo piuttosto che descrittivo del termine aggressività. Attualmente gli psicologi sono giunti ad una definizione neutra del termine, intendendo per aggressivo qualsiasi comportamento che intenzionalmente procura danno a qualcuno, danno che non necessariamente deve essere visto sotto il profilo fisico, ma che molto spesso è anche solo di natura psicologico-emotivo. Così introduciamo una variabile nel comportamento aggressivo che è la violenza. Infatti possiamo avere una condotta aggressiva (due bambini che giocano ed uno spintona l’altro) ma non violenta per cui possiamo dire che può esistere un comportamento aggressivo non violento, ma non può esistere una forma di violenza senza aggressività. Infatti con il termine violenza si intende una forma di aggressività che assume nel suo evolversi l’intento di arrecare danni alla vittima. La componente violenta è accessoria in quanto può esservi una forma di aggressività priva di violenza ma non vi può essere una forma di violenza senza aggressività. Ai fini criminologici è necessario inoltre proporre una distinzione nel comportamento aggressivo ai fini di identificare anche la natura (e quindi le responsabilità) del delitto compiuto. Infatti un comportamento violento esercitato nei confronti di una persona a reazione di una precedente forma di aggressione, o a difesa della propria incolumità è ben differente da un comportamento di attacco mosso da un impulso di rabbia, ed è ancora diverso da un comportamento predatorio agito per il compimento di una rapina, o dal comportamento che esita in una violenza carnale – con o meno l’uso di violenza fisica.
Nel primo caso avremmo un comportamento aggressivo difensivo, mosso dall’istinto di conservazione-sopravvivenza con una valenza anche di natura etico-morale prevalentemente positiva, nel secondo caso avremmo un comportamento aggressivo ostile o emotivo, mosso da un impulso incontenibile contraddistinto da forte emotività origine anche di azioni inconsulte che possono sfociare in delitti d’impeto (si pensi all’omicidio preterintenzionale ove un soggetto nel corso di un diverbio, accecato dall’ira perde il controllo e colpisce violentemente il proprio interlocutore facendolo cadere a terra e facendogli battere la testa con esito mortale), nel terzo caso invece ci troviamo di fronte ad una aggressività strumentale per il compimento di una azione esclusivamente delittuosa o comunque di forte sopraffazione: si pensi ad esempio ad una rapina ma anche al più frequente e dilagante fenomeno del bullismo o anche ai fenomeni di stalking o mobbing dove è prevalente se non esclusiva la componente emotivo-psicologica piuttosto che la componente fisica.
In definitiva l’aggressività in termini di comportamento può manifestarsi con modalità fisiche, esempio le percosse, psicologiche esempio il mobbing, o psico-fisiche quali le violenze sessuali, tenendo presente che un po’ come il rapporto aggressività-violenza, anche nella relazione comportamento aggressivo con modalità fisiche e comportamento aggressivo con modalità psicologiche, un comportamento aggressivo-fisico contempla sempre una componente psicologica, mentre un comportamento aggressivo psicologico non necessariamente si evolve in una aggressione di natura materiale.

Un po’ di storia…
Freud ha visto nell’aggressione la manifestazione di un innato ed istintuale tratto dell’uomo, che molto avrebbe perso nel corso del normale sviluppo. La successiva evoluzione della teoria freudiana, che esiterà nella teoria di Melanie Klein, chiama in campo l’energia di vita dell’uomo (eros) e l’energia distruttiva o di morte dell’uomo (thanatos) che si confrontano alla ricerca di un equilibrio; così la violenza è la manifestazione del thanatos da se stessi verso altri. In una visione pessimistica del genere umano, si sostiene che al corredo pulsionale dell’uomo occorre attribuire anche una buona dose di aggressività, con la conseguenza che l’uomo stesso vede nel prossimo non solo un eventuale soccorritore e oggetto sessuale, ma anche un qualcosa su cui poter sfogare la propria aggressività, sfruttarne la forza lavorativa senza ricompensarlo, abusarne sessualmente senza il suo consenso, sostituirsi a lui nel possesso dei suoi beni, umiliarlo, farlo soffrire, torturarlo, ucciderlo. Nello stesso periodo in cui Freud formula la sua teoria, Alfred Adler, pubblica i suoi studi su un volumetto intitolato “Studi sull’inferiorità organica”, nel quale tratta aspetti indipendenti dalle idee freudiane. Adler sviluppa con sistematicità l’idea dell’inevitabile presenza nel corpo dell’uomo di un “organo più debole”, implicato spesso nell’insorgenza della malattia. Questa presenza dell’organo debole attiva dei processi compensativi. La matrice di partenza è biologica, lo studioso propone in modo deciso il salto nello psichico; rileva come in soggetti portatori di inferiorità organica si possano osservare movimenti compensatori che plasmano la personalità e influiscono sulle scelte di vita: accade che portatori di disturbi dell’udito siano divenuti valenti musicisti, soggetti con problemi alla vista abbaino scelto di dedicarsi alla pittura, balbuzienti che siano diventati oratori. Concentrandosi sull’organo inferiore si avvia il processo di compensazione che può permettere un funzionamento soddisfacente, tale da pervenire talvolta, a livelli di superiorità. In questa dinamica Adler individua il nucleo della dinamica nevrotica. Qualsiasi posizione di inferiorità produce una spinta al superamento dell’inferiorità stessa e così l’aggressività viene agita per compensare un sentimento di inferiorità sentito dalla persona, presupponendo che la pulsione sia l’effetto di un brutto rapporto con l’ambiente e che l’aggressività sia una strategia estrema dell’individuo finalizzata alla realizzazione di se stesso. Su questo tema Anna Freud sviluppa il pensiero del padre introducendo una forma di comportamento difensivo che si manifesta contro forme di aggressività vissute in modo traumatico. Tale meccanismo difensivo, denominato Identificazione con l’Aggressore, si esprime in modo evidente nel bambino vittima di un’aggressione, ma lo si può rinvenire anche nei comportamenti degli adulti. Attraverso l’identificazione con l’aggressore il soggetto si difende da un atto aggressivo riproducendolo in forma simbolica nel gioco (nel caso del bambino) o attraverso l’agito e il sintomo (anche negli adulti) permettendo così una reiterazione del trauma subito, capace nel tempo di renderlo accettabile alla coscienza (qui non avrebbe senso trattare quello che è stato l’argomento della mia tesi, ossia “La correlazione tra l’abuso sessuale in infanzia e lo sviluppo di disturbi alimentari in adolescenza ed età giovane adulta”, ma anche questo legame , tra abuso e sintomo anoressico-bulimico -non solo nell’ottica dell’evoluzione longitudinale, del Ptsd, ma anche come estremo tentativo di salvarsi col sintomo-, si presta bene a spiegare il tentativo di ricostruire un’ integrità accettabile, ovvero sparire per non essere, mai più, possibile vittima, o ancora annullare le caratteristiche sessuali che hanno resa vittima, attraverso il sintomo, fino alle’strema mortificazione del corpo). Dall’elaborazione del pensiero di Abraham sui primi stadi di sviluppo infantile ed in particolare sulla fase sadico orale prende corpo la teoria formulata da Melanie Kleine la quale da ampio risalto al ruolo che hanno gli impulsi distruttivi presenti nel bambino fin dall’inizio della sua vita; tali impulsi rappresenterebbero la proiezione verso l’esterno di una aggressività innata ove le precoci esperienze di frustrazione possono associarsi ad un aumento delle pulsioni sadiche. Principio della teoria kleiniana è la presenza di una precocissima distruttività, di fantasie arcaiche di sadismo orale, uretrale, anale, di distruzione e di annientamento, dalle quali bambino stesso deve proteggersi per non autodistruggersi. Non potendo sviluppare, specie in età neonatale, esperienze relazionali capaci di contenere le fantasie aggressive-distruttive, e dovendo proteggersi da queste, il bimbo e – poi l’adulto – saranno portati a proiettare l’aggressività e la distruttività verso l’esterno di sé: sono gli altri ad essere aggressivi e distruttivi, rappresentando di fatto una minaccia. Si tenta, così, di dare una prima spiegazione al perché alcune persone si macchiano di crimini violenti. Otto Fenichel afferma l’esistenza di una aggressività pulsionale innata, infatti nel suo “Trattato di Psicoanalisi delle Nevrosi e delle Psicosi” afferma: “Naturalmente non si può negare l’esistenza e l’importanza degli impulsi aggressivi. Ma non possiamo provare che essi sempre e necessariamente appaiono per l’esteriorizzarsi di esigenze autodistruttive ancor più antiche. Forse l’aggressività, in origine, non era uno scopo istintivo in sé, caratterizzante una categoria di istinti, in contraddizione con altri, ma piuttosto un modo di lottare degli scopi istintivi contro disillusioni, o perfino spontaneamente. E’ tanto probabile tentare di raggiungere la meta tramite la distruzione quanto più primitivo è il livello di maturazione dell’organismo, forse a causa di una tolleranza delle tensioni insufficientemente sviluppata.” Credo sia possibile interpretare queste sua parole dicendo che, per Fenichel, l’aggressività non è primaria bensì finalizzata alla ricerca di autostima e alla soddisfazione di bisogni e desideri. Essa si è sostituita ad altri comportamenti adottati in passato dimostratisi inefficaci oppure dal momento che la persona a causa di una specifica storia evolutiva, non possiede altri “strumenti comportamentali” che non siano quelli aggressivi. Un’ importante lettura arriva da Spitz, autore di interessanti studi sull’interazione fra madre e bambino e delle conseguenze rivenienti dalla deprivazione materna, in particolare modo entro i 6 mesi di vita, e l’insorgere della depressione anaclitica (per mancanza di appoggio). Sptiz ritiene l’aggressività una pulsione assimilabile alla libido, fondamentale nella costruzione dell’oggetto e delle relazioni con esso. In questa dinamica la pulsione aggressiva e quella libidica concorreranno ad un “rapporto oggettuale” sano. Il sentimento di diniego, funge da collante al comportamento aggressivo, che matura nel bambino attraverso la possibilità di dire No e quindi attraverso la possibilità di organizzare la propria aggressività, evitando la scarica disorganizzata. Per quanto riguarda gli studi più recenti sull’aggressività troviamo il lavoro di Heinz Hartmann, esponente di spicco della scuola della psicologia dell’Io, che fa capo ad A. Freud, che parla di pulsione aggressiva e di una libidica, le quali entrambe partecipano allo sviluppo della personalità. Per l’autore la possibilità di agire o meno in modo aggressivo dipende dalle capacità dell’io di neutralizzare le spinte aggressive attraverso l’altra forza pulsionale della libido, inquadrando così l’aggressività all’interno di una teoria bipulsionale, come da ultima teorizzazione freudiana. Importante contributo al tema è stato fornito anche da Heinz Kohut, studioso del narcisismo fondatore della corrente americana della psicologia del sé. Secondo Kohut requisito fondamentale per un sano sviluppo emotivo dell’individuo è il rispecchiamento empatico madre – bambino, la sua approvazione ed ammirazione, fattori che permettono la trasformazione dell’investimento narcisistico del Sé grandioso ed esibizionistico (arcaico), in modo tale da poter integrare la grandiosità e l’esibizionismo arcaici nel resto della organizzazione psichica: “Io credo che la distruttività umana, come fenomeno psicologico, sia secondaria; che essa sorga originariamente come fallimento da parte dell’ambiente oggetto-Sé (la madre) di venire incontro ai bisogni empatici ottimali da parte del bambino”. Per cui il fallimento della relazione con la madre provoca una ferita narcisistica che si esprime attraverso l’aggressività finalizzata alla distruttività e sarà tanto più violenta quanto più vi è un investimento sul proprio io narcisistico. Quindi primitive manifestazioni difensive di odio, aggressività rabbia in occasione di ferite narcisistiche possono portare al compimento di gravi gesti sfocianti anche in delitti di notevole entità. Un contributo determinate allo studio del trauma e delle origini della violenza da una rielaborazione delle teorie di Corner sulle relazioni oggettuali, di Bowlby sulla teoria dell’attaccamento e di Kohut, vengono, appunto, da Felicity De Zulueta la quale contesta l’origine istintuale dell’aggressività, sostenendone invece la natura ed il valore socio culturale. Nel suo lavoro De Zulueta mette in evidenza l’importanza delle relazioni interpersonali, in particolare di quelle precoci, nel determinare il modo in cui percepiamo noi stessi e ci comportiamo gli uni con gli altri. Viene così individuata l’origine di molti comportamenti violenti nella perdita precoce di relazioni di attaccamento significative (Vedi Bowlby, ma anche Liotti –che è un cognitivista e non uno psicoanalista, ma giusto ieri -31/3/07- ad un convegno a Milano, gli sentivo dire di questi temi), nella deprivazione affettiva, in maltrattamenti subiti durante l’infanzia, così che l’aggressività rappresenterebbe un comportamento di risposta a traumi affettivi da attaccamento (abbandono, maltrattamenti, abusi, etc). I traumi affettivi toglierebbero sicurezza affettiva al soggetto, che reagirebbe con una aggressività celante un sentimento di paura, trasformandosi da vittima in aggressore. Piuttosto articolata la teoria proposta da Donald Winnicott, secondo cui l’aggressività dell’individuo allo stadio neonatale, ancora privo di personalità, esprime i suoi sentimenti di amore e odio attraverso l’aggressività. Dall’aggressività promana dapprima in un sentimento di amore istintuale, l’appetito, che in seguito si trasforma in rabbia, e che cresce durante l’eccitazione. Nel bambino l’aggressività si manifesta attraverso la ricerca spasmodica del seno materno e quindi nella poppata, ed è proprio nell’esercizio della poppata che il neonato comincia ad elaborare meccanismi di inibizione al fine di limitare, verso l’oggetto che ama, i danni. Per l’autore l’aggressività ha così due significati: uno di reazione diretta ed indiretta alla frustrazione, l’altro di fonte di energia dell’individuo, energia che si esprime nella prima infanzia in continui movimenti che producono al soggetto un certo tipo di piacere muscolare; è attraverso questo ultimo aspetto specifico che avviene lo sviluppo del bambino, sulla base del suo procedere dal semplice movimento ad azioni che esprimono collera o stati che denotano odio e controllo dell’odio. Winnicott sosteneva con fermezza che la mamma deve odiare il proprio bambino, perché solo così il bambino potrà a sua volta render la madre oggetto del suo odio, e verificare che questo non potrà distruggerla. Creerà così l’equilibrio interno amore- odio e loro espressione. Otto Kernberg, oltre a contrapporsi alla teoria formulata da Kohut sul narcisismo, ha rielaborato l’interpretazione psicoanalitica delle pulsioni, proponendo una integrazione delle teorie sugli affetti e delle relazioni oggettuali. In una visione di compromesso Kernberg attribuisce alle pulsioni il ruolo di “accentuare gli aspetti superficiali del funzionamento inconscio (il ruolo dell’adattamento e la realtà) e di minimizzare la consapevolezza degli aspetti perturbanti dell’odio primitivo e della natura primitiva della precoce fantasia inconscia erotica e sadomasochistica”, mentre gli affetti hanno un ruolo di grande importanza per la comunicazione fra madre e bambino. E’ grazie alle prime esperienze di vita e a due qualità innate fantasticare e memorizzare, che l’individuo sviluppa due pulsioni basilari allo sviluppo della rappresentazione di sé e dell’oggetto (che in seguito si trasformerà in una struttura tripartita in Es, Io e Super Io): una di vita ed una di morte che si esprimerà attraverso l’aggressività. Dal versante cognitivista,se non cognitivo-comportamentale, la teoria denominata “Social Learning” suggerisce che i prodotti di un comportamento sono strettamente legati alle sue conseguenze. Quando al comportamento adottato fa seguito un risultato sperato o comunque positivo, quel comportamento viene rinforzato, creando i presupposti perché si ripeta; quando invece il comportamento è seguito da una conseguenza avversa o indesiderata, quel comportamento è punito riducendo quindi le probabilità di reiterazione. Per Albert Bandura l’aggressività non è una tendenza innata, ma è appresa attraverso un processo definito “modello di comportamento”. Secondo questa teoria gli individui, ed in particolare modo i bambini, imparano la risposta aggressiva attraverso l’osservazione delle persone, dei media, e dell’ambiente. In tale contesto la famiglia è considerata il principale esempio di “modello di comportamento”, ove il bambino apprende le stesse tattiche aggressive che vede impiegare dai propri genitori verso gli altri. In questo modello , l’aggressività è vista come comportamento appreso. Così si può affermare che attraverso l’osservazione noi possiamo imparare le conseguenze di un comportamento, come è fatto, a chi dovrebbe essere diretto, quali elementi lo giustificano, e quando è appropriato . Questa teoria da sicuramente spunti interessanti, ma è solo parzialmente estendibile ai comportamenti violenti “organizzati” e ancora meno fornisce una chiave interpretativa che possa dare indicazioni sul “recupero” degli attori violenti. Ma del resto, non credo fosse questo lo scopo di Bandura, quando fece le sue teorizzazioni in merito. Anche l’etologia ha dato il suo contributo al fine di delineare i nuclei del comportamento aggressivo. L’etologo Konrad Lorenz, forse il più noto studioso del comportamento animale, ha dedicato un intero libro all’aggressività dall’emblematico titolo “Il cosidetto male”, osservando che si possono distingue due generi di aggressività : quella interspecifica, manifestata nei confronti di specie diverse, quella intraspecifica manifestata fra individui della stessa specie. L’autore riconosce che l’aggressività animale ha un aspetto adattativo, che emerge da una necessità biologica, la sopravvivenza propria e della specie e che tale istinto si è poi evoluto assieme all’uomo. Il punto però che mentre negli animali l’aggressività è tenuta sotto controllo da meccanismi inibitori, nell’uomo l’evoluzione culturale ne ha vanificato i meccanismi di autoregolamentazione, senza però preparare nuovi controlli. Lorenz sostiene che l’istinto dell’aggressione è innato, nell’essere umano, mentre il suo modo di espressione è influenzato dall’esposizione e dall’interazione con l’ambiente. In un libro intitolato “L’aggressività”, Lorenz si sforza invece di liberare il problema dalle sue componenti emotive e ideologiche e di rintracciare le origini filogenetiche dell’impulso aggressivo, di chiarire le sue condizioni, di classificare le sue manifestazioni. Appare così come l’aggressività — in modo simile agli altri tre istinti citati— sia innata, tragga origine dalla storia naturale della specie: l’ambiente infatti non può né sopprimere né creare questi istinti, può soltanto esercitare su di essi un effetto relativo di potenziamento o di inibizione. L’aggressività, in realtà, lungi dal presentarsi come un fenomeno patologico o un «male», si caratterizza come una disposizione normale presso tutte le specie viventi. La teoria di un istinto guida per l’aggressione suggerisce che essa cresce nel tempo, alimentata dalle emozioni o da processi mentali, ed è conseguentemente scaricata da un processo di catarsi , il quale apparentemente ne guida il deflusso. Ricerche empiriche, inclusi studi sulla fisiologia, non confermano questa forma di “compensazione idraulica” della teoria dell’energia aggressiva. Inoltre antropologi ad altri scienziati sociali hanno trovato significative differenze sia nella natura che nel livello di aggressività nelle differenti culture, e ricerche sperimentali hanno dimostrato che l’aggressività può essere manipolata dall’ambiente. Entrambe le scoperte muovono contro un universale istinto dell’uomo o, se si preferisce, di determinismo psicologico. Fra l’altro se accettassimo come esclusive le teorie biologiche o istintuali non riusciremmo a spiegarci le differenti percentuali differenziali di comportamento violento fra gruppi sociali diversi. Da aggiungere poi che le polemiche fra osservazioni sperimentali che dimostrano la “naturalità” e dunque l’immodificabilità e bontà del comportamento aggressivo e quelle che documentano il contrario paiono un poco ingenue, dato che se l’uomo non è certo una creatura sublime, ma è –anche- un animale, non si può negare che nelle sue spinte ad agire intervengano pure variabili diverse da quelle biologiche. Se poi come sembra dalla disamina delle varie ricerche sul comportamento animale, animali diversi si comportano differentemente, possiamo ben immaginare quanto poco siano applicabili all’uomo le osservazioni fatte sugli uccelli o sui normali scimpanzé, benché più affini geneticamente agli umani. Come accennavo all’inizio un contributo pregiato allo studio degli attori di reati violenti (omicidi, serial killers, ma non solo..), ci viene dalle ricerche di un criminologo americano, L. Athens. Athens, dopo aver subito nell’infanzia le violenze del padre, si è laureato in criminologia all’University of California a Berkeley nel 1975. Ha condotto le sue ricerche nei carceri d massima sicurezza dello Iowa, della California e di altri stati degli USA. In The Creation of Dangerous Violent Criminals (1992) , per la prima volta porta alla luce le sue ipotesi che ben si organizzeranno in quella che è definita teoria della violentizzazione. Sempre da oltre oceano, un sociologo, Prior Douglas, nel suo Unspeakable Acts. Why men sexually abuse children, ci da una serie di casi clinici di ex detenuti, fatta eccezione per pochi casi, ancora incarcerati, accusati e condannati, per reati a sfondo sessuale su bambini, molti sono reati intrafamiliari. Douglas nell’introduzione al libro, si dice convinto che chiedere a chi si è macchiato di tale reato e abbia accettato la sua responsabilità, sia il solo modo per capire come e perchè gli uomini (non narra di casi di donne, attivamente coinvolte nel reato) abusino di bambini, quali siano le ragioni che li spingono a oltrepassare la linea e fare “confusione delle lingue”, confondendo, per dirla con Ferenczi, “ il linguaggio della passione e il linguaggio della tenerezza”, quali i motivi che portano un padre ad amare la figlia in quei modi che hanno come conseguenza tutto tranne che la sicurezza che l’essere amato trasmette, quali le dinamiche che li portano a convincersi che siano i bambini a desiderarlo e a sedurli, e che in fondo non sia nulla di male. Il solo modo per capire, comprendere forse, è elaborare strategie che evitino se non altro la recidiva, ben consapevole come tutti noi, che non si può fare prevenzione primaria, con i soggetti che finiranno col diventare pedofili, stupratori, abusanti sessuali, nel senso più ampio del termine. Ma torniamo ad Athens. Egli parla della violentizzazione progressiva dell’individuo dovuta ai soprusi subiti da piccolo ma non solo. Basta anche essere testimoni di fatti brutali per reprimere la rabbia e trasformarla in una sorta di desiderio di vendetta. Persone che passano da una bassa stima di sé, perché magari non hanno saputo reagire sul momento, approdano con il delitto o la violenza a una esagerata stima di sé. Perché una persona compie il male? Predisposizione, infanzia, traumi, educazione, società? Nel caso dei serial killer la disgregazione della famiglia è un fattore che facilita l’emergere di una situazione deviante. Ma non basta. Non esiste una predisposizione a diventare omicida seriali, così come non esiste per diventare pedofili o stupratori (o padri, cugini, zii abusanti, che non sono né pedofili, né stupratori a mio vedere, ma costituiscono una peculiare categoria a sé- senza voler con questo cadere nelle concezioni della Labelling Theory), ma si entra nella categoria attraverso un lungo percorso che comincia nell’infanzia, con i primi traumi e le prime angosciose situazioni da superare. Si innescano le prime perversioni (torture ad animali, ad esempio, come vedremo poi in uno dei casi riportati) che si stabilizzano con il tempo e che fanno in modo che un soggetto maturi con disposizioni psichiche molto particolari. Sono quadri psicologici tali, che difficilmente si può escludere la psicopatologia, fino alla psicopatia. Ovviamente, lo sottolineo per precisione, personalità patologiche spesso anche in comorbidità con diagnosi in Asse I, del DSM, non escludono necessariamente la capacità di intendere e volere. “La gente ha bisogno di credere che questi personaggi siano diversi, malati, uno sbaglio della natura”, afferma Ugo Fornari, neuropsichiatra che ha curato la perizia di alcuni tra i più efferati criminali seriali italiani. “Ma non è così. Salvo rari casi essi non sono né mostri né folli. Il loro modo di agire richiede una programmazione e una capacità di sfuggire alle indagini che è incompatibile con la malattia mentale”. Dottor Jekyll e Mr Hyde. Si nascondono tra la gente comune. A volte hanno una doppia vita: buoni mariti, fidanzati premurosi, lavoratori instancabili; ma tolta la maschera, diventano belve feroci e irriconoscibili. Alcuni sono straordinariamente intelligenti, altri addirittura conversatori brillanti.

Le fasi della violentizzazione sono riassumibili in 4 steps, secondo la teoria di Athens:

  1. brutalizzazione: il bambino viene costretto con la violenza (o con la minaccia di violenza) a sottomettersi a una figura aggressiva e autoritaria; questa brutalizzazione lascia la vittime «profondamente turbate e disturbate»;
  2. belligeranza: il soggetto, in difficoltà con sé stesso e con il mondo, determinato a evitare ulteriori brutalità, decide di imitare il proprio aguzzino e di ricorrere alla violenza;
  3. prestazioni violente: la risposta violenta ha successo, e il soggetto coglie il rispetto e la paura nello sguardo degli altri, che ora «lo trattano come se fosse letteralmente pericoloso. Agiscono nei suoi confronti con molta più cautela, prestando particolare attenzione a non offenderlo o provocarlo in alcun modo»;
  4. virulenza: la malevolenza diventa una decisione e una scelta, il soggetto «è pronto ad attaccare fisicamente le persone con l’intenzione di ferirle gravemente o di uccidere alla minima provocazione»; può scoprire «di essere diventato un compagno benvenuto e ambito in gruppi per i quali avere una reputazione violenta è un requisito sciale necessario».

La prima di queste, definita brutalizzazione, è composta da tre esperienze più elementari: la sottomissione violenta, l’orrificazione personale, e l’addestramento violento. Tutte e tre implicano, ciascuna a modo suo, che una persona subisca un trattamento aspro e crudele per mano altrui e che questo produca un impatto durevole e radicale nel prosieguo delle loro vite. Nel dettaglio la sottomissione violenta avviene quando alcune figure di fiducia o particolarmente autoritarie, appartenenti ad uno dei gruppi primari del soggetto, usano la violenza o costringono il soggetto a sottomettersi alla loro autorità (es. la coercizione). Nell’orrificazione personale, invece, il soggetto non subisce direttamente una sottomissione violenta ma testimonia alla somministrazione di questo trattamento ad un’altra persona membra, anch’essa, del suo gruppo primario (es. parente o amico molto stretto). Infine, nell’addestramento violento al soggetto viene assegnato il ruolo di novizio violento da parte di una persona facente parte del suo gruppo primario il quale, generalmente in maniera informale ed implicita, lo stimolerà continuamente a generare una condotta violenta. Proprio al termine della prima fase, il soggetto – secondo quanto esposto da Athens – rimane profondamente turbato, disturbato ed ansioso di sapere il motivo di tale trattamento; esso si convince progressivamente dell’esistenza di un futuro gravido di rischi verso cui lui si sente impotente ed umiliato. In tale fase, infatti, definita della belligeranza, l’individuo così a lungo brutalizzato sceglie di adottare una soluzione che, per quanto ancora condizionata dal fatto di commettere atti di grave violenza solo in reazione ad eccessive provocazioni, attende ora solo il momento del passaggio all’atto. Da un punto di vista psicoanalitico credo che A. Freud porrebbe alla base di questa azione il meccanismo (che è difensivo, in senso stretto) dell’Identificazione con l’aggressore. Questo, allorché accadrà, condurrà sicuramente il soggetto ad una serie di conflitti che non segneranno ancora il passaggio alla fase successiva, quella definita della <prestazione violenta>, fin tanto che l’individuo stesso non comprenderà appieno il significato del proprio successo. Il rispetto, il timore e la celebrità che tali azioni comporteranno per il soggetto cronicizzeranno infine la scelta di tale modalità comportamentale finché il passaggio ad una risoluzione violenta, non più mitigata, segnerà il passaggio definitivo all’ultima delle quattro fasi della violentizzazione: la virulenza. Il soggetto, in tale momento è pronto ad attaccare fisicamente le persone con l’intenzione di ferirle gravemente o di ucciderle alla minima provocazione, divenendo così un criminale ultraviolento. Ogni fase, spiega Athens, «descrive le esperienze sociali che le persone devono attraversare prima di poter accedere alla fase successiva dello sviluppo della violenza». Quattro sono le possibili tipologie di interpretazione delle situazioni violente che sono state identificate da Athens. La prima di queste prevede, nel dettaglio, che un attore violento formi un’interpretazione di tipo difensivo – c.d. di difesa fisica – interpretando inizialmente l’atteggiamento della vittima come il prodromo (o l’avvio) di un attacco fisico e convincendosi poi della necessità di una risposta di tipo aggressivo. Ciò pare principalmente dettato dal fatto che il soggetto vede la forza come l’unico mezzo per impedire che un’altra persona infligga danni fisici a lui o ad un’altra persona a lui intima. Il secondo tipo di interpretazione viene invece definita dal ricercatore come frustrativa poiché dettata dalla resistenza o dal ripetuto tentativo di convincimento da parte della vittima alla cooperazione; in tale modo l’emozione predominante del perpetratore è quella della rabbia dovuta alla frustrazione delle sue originarie intenzioni. L’interpretazione malefica deriva viceversa da una valutazione ribaltata della vittima, ovvero come colei che lo sminuisce o lo offende; essa viene considerata malvagia e pertanto punibile solo con un’azione di tipo violento. L’emozione predominante in questo caso è l’odio. Infine esiste il tipo c.d. frustrativo-malefico che combina le caratteristiche delle due precedenti classificazioni. La resistenza frustrante o l’insistenza della vittima porta il perpetratore a concludere necessariamente che la vittima stessa sia malvagia o malefica e meritevole, di conseguenza, di una risposta violenta. Ovviamente non è detto che tutti coloro che effettuano tali tipi di interpretazioni portino a compimento l’impetuoso atto criminale: Athens propone perciò tre possibili linee di sviluppo. La prima, definita linea fissa di indicazione, è vista come una sorte di tunnel dalla quale il perpetratore, effettuata un’iniziale interpretazione violenta della situazione, non riesce ad uscirne se non attraverso un’azione ugualmente brutale. La seconda possibilità è sostanzialmente un giudizio di contenimento: l’attore violento ridefinisce la situazione e, sulla base della nuova definizione, riesce a decidere di agire in modo diverso lasciando cadere il piano d’azione aggressivo precedentemente formulato. Infine il terzo possibile sviluppo è un giudizio sovrapposto ed avviene qualora un attore considera momentaneamente di non mettere in atto il piano di azione violento, formando di fatto un giudizio di contenimento, per poi ridefinire la situazione e giudicare che questa richieda assolutamente un’azione impetuosa. Athens conclude col dire che, nelle situazioni violente studiate, i soggetti hanno sempre considerato, deciso e scelto quando e dove agire in modo aggressivo interpretando le situazioni con paura, rabbia o addirittura odio al pari di chiunque altro; tuttavia gli attori violenti differiscono da questi nel fatto di decidere di agire in modo violento. La chiave di tale teoria sembra dunque sussistere ora in quel processo decisionale, antecedente alle interpretazioni, che porta le predette persone a conclusioni tanto diverse. Athens imposta la spiegazione di tale sviluppo sul presupposto che “le persone sono ciò che sono per il risultato delle esperienze sociali significative vissute nel corso delle proprie vite” ma anche che “le esperienze sociali si costruiscono spesso sulla base delle precedenti esperienze in modo tale da farne intuire un determinato processo di sviluppo”. Molti psichiatri, invece, fanno risalire tutto a fattori psicologici e all’ambiente di vita e di crescita del soggetto. “Anche se è difficile generalizzare, nella loro esistenza ci sono delle costanti. Alcuni sono stati maltrattati e abusati da bambini. Tutti quanti hanno un passato freddo e vuoto oppure un’infanzia priva di calore e di sentimenti”, assicura Fornari. “Sono individui senza emozioni, incapaci di mettersi in rapporto empatico con gli altri. Quando appaiono socievoli, in grado di corteggiare e sedurre, lo fanno solo per tessere la tela di ragno nella quale far cadere la preda. Con un’unica strategia: prendere le persone, usarle e poi disfarsene. D’altro canto convincendosi che le vittime sono delle cose diventa più sopportabile il carico psicologico delle violenze che compiono”. Il comportamento criminale è un comportamento umano, pertanto costituito da un’inestricabile interazione tra eredità e ambiente. Alterazioni o danni in alcune zone dell’encefalo sono stati posti in correlazione con un aumento dei comportamenti violenti. (…) quanto più precoce è il danno, prima cioè che vengano appresi nel corso dello sviluppo gli opportuni schemi di autocontrollo, tanto maggiore è il rischio di condotte aggressive. Le alterazioni neurologiche possono inoltre produrre una maggiore suscettibilità agli effetti di alcol e droghe. Quando poi il danno cerebrale comporta un difetto di intelligenza nel soggetto, ecco aumentare il rischio di una marginalizzazione sociale, di un’adesione a contesti subculturali dove la violenza rappresenta la modalità primitiva e privilegiata di comunicazione. Le ricerche sulla biochimica della violenza si sono concentrate su due principali categorie di sostanze: i neurotrasmettitori e gli ormoni. Tra i neurotrasmettitori la serotonina sembra avere un ruolo di primo piano nella regolazione della violenza: bassi valori di serotonina sono stati associati a comportamenti aggressivi, soprattutto di tipo impulsivo. Da alcuni decenni, invece, le ricerche sul ruolo degli ormoni vedono il testosterone come principale imputato nell’aggressività; anche in questo campo non sono mancati i ripensamenti, e oggi l’influenza delle alterazioni nella concentrazione di questa sostanza viene posta in correlazione con quelle di altri elementi: estrogeni, prolattina, cortisolo. Abusi nell’infanzia Secondo dati americani, che non differiscono molto da quelli del resto del mondo occidentale, il 42% degli omicida seriali ha sofferto di abusi fisici da bambini, il 43% è stato molestato sessualmente e il 74% è stato sottoposto a torture psicologiche. Brutalizzati nell’infanzia, i serial killer crescono pieni di rabbia assassina contro tutta l’umanità. Trovano piacere soltanto infliggendo pene al prossimo. Possono sentirsi vivi soltanto procurando la morte. E le percentuali aumentano se non si parla più di serial killers, ma di autori di reati sessuali. Il bambino trascurato o vittima di abusi, attraversa numerosi conflitti nella sua infanzia senza essere capace di costruire e utilizzare un sistema di difesa adeguato. Questo porta l’individuo a isolarsi totalmente –intimamente, non necessariamente in modo concreto- dalla società che percepisce come un’entità ostile. Alcuni scelgono di suicidarsi da adolescenti piuttosto che affrontare una vita di solitudine e frustrazione. L’uomo che si macchia di tali reati, possiede una scarsa opinione di sè e rifiuta una società che lo scarta. Incapace di tenersi un impiego. La famiglia e gli amici lo descrivono come una persona tranquilla, piacevole, ma chiusa, che non riesce a realizzarsi. Da ragazzo può commettere atti di voyerismo o feticismo che sostituiscono la sua incapacità ad avere rapporti sessuali. Altri sceglieranno di esteriorizzare questa ostilità e la esprimeranno con gesti violenti o insensati. Sulla definizione di trauma e di Child Sexual Abuse, si è ampiamente dibattuto e ai fini di ricerca non è stato sempre semplice condurre le indagini, a causa delle diversità che caratterizzano i disegni di ricerca in tale ambito, proprio a causa della difficile univocità nell’ operazionalizzazione della variabile Abuso Sessuale, appunto. Ma di questo non ha senso parlare qui. Si può certamente dire che i traumi sessuali possono essere molteplici, vanno da quelli molto semplici dell’aver visto il proprio genitore nudo, all’aver assistito alla cosiddetta “scena capitale”, ad un rapporto sessuale dei propri genitori, molte volte male interpretato dai bambini che ritengono di aver assistito a un atto di violenza. Ad una certa età la visione o la partecipazione a situazioni ed esperienze violente può far sì che il bambino leghi la gratificazione provata nell’ambito sessuale ad un’altra sensazione prettamente di angoscia e che quindi scelga poi la violenza come mezzo per poter ritornare ad una soddisfazione di tipo sessuale. Così sostiene De Zulueta, limitamdo i suoi resoconti ed analisi ad indagini cliniche di pazienti vittime di abusi, spesso donne che diventavano poi madri spesso assolutamente incapaci di accadimento, Lonnie Athens riesce a chiosare il proprio studio con la dimostrazione che “le persone violente giungono alla violenza attraverso quegli stessi processi universali, il soliloquio e il cambiamento drammatico del sé, che conducono il resto di noi al conformismo, al pacifismo, alla grandezza, all’eccentricità o alla sanità” comportandone, peraltro, la stessa responsabilità nelle scelte. Ma è davvero possibile dire che un soggetto diviene un sadico sessuale in serie solo perché ha subito dei traumi infantili, ha utilizzato, nell’adolescenza materiale pornografico, poi, ha fatto uso di sostanze alcoliche e stupefacenti? Molti individui, però, hanno subito traumi, abusano di alcol e fruiscono ossessivamente di pornografia, senza divenire però stupratori o assassini. Se è vero che sempre meno sensato appare negare l’esistenza di un nesso diretto fra violenze subite e violenze restituite, è altresì vero che la differenza, ad esempio tra uomini e donne autori di reato è tale da non potere essere paragonata alla maggioranza di vittime bambine rispetto ai coetanei maschi. La donna è sempre stata oggetto di violenza più dell’uomo, ma forse “costituzionalmente” è portata ad agire più verso sé stessa (disturbi sessuali, della condotta alimentare, abuso di psicofarmaci e alcool,…), o in modo passivo (aggressioni passive)verso l’ Altro, ciò che l’uomo tendenzialmente agisce con degli actings out eterodiretti, che sfociano spesso in violenze vere e proprie. E quando l’oggetto della violenza è una donna o una bambina, il più delle volte si configura un reato sessuale (609- 609 bis, ter, …c.p.) Athens ribalta molti luoghi comuni sull’origine della personalità violenta, fra i quali la convinzione che sia guidata da impulsi e motivazioni inconsci, il suo contributo scientifico può essere di grande aiuto nella prevenzione e nel controllo della criminalità.


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